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sabato 30 aprile 2011

Carlo Onofrio Gori. Risorgimento. I prigionieri toscani di Curtatone e Montanara a Terezienstadt. 2011 - 150th Anniversary of the Unification of Italy


Guerre e prigionieri toscani d’altri tempi: i pistoiesi a Curtatone Montanara e nella prigionia boema di Terezin (1848)


Com’è noto, a Curtatone e Montanara, il 29 maggio 1848, i toscani, insieme ad un piccolo contingente napoletano, si batterono con valore contro un nemico esperto, agguerrito e preponderante, e pur dovendo alla fine ripiegare diedero il tempo ai sardo-piemontesi di prepararsi per affrontare vittoriosamente, il giorno seguente, il grosso dell'armata austriaca a Goito: successo purtroppo poi non sfruttato.
Alla fine di quella giornata non tutti i combattenti ebbero il tempo di ritirarsi: rimasero infatti nelle mani degli austriaci ben 1276 prigionieri, toscani in massima parte e fra questi 29 pistoiesi che avevano avuto tra le loro fila 6 caduti e 12 feriti (1). Alcuni cimeli, ritratti e documenti conservati nella Biblioteca Forteguerriana di Pistoia ci parlano della loro sorte, ma è soprattutto nel libro Ricordi storici del battaglione universitario toscano del reduce pistoiese Gherardo Nerucci, poi noto autore delleSessanta novelle popolari montalesi, che troviamo le testimonianze particolarmente dettagliate e preziose di Tarugio Tarugi, montepulcianese, e di Alfonso Ademollo, fiorentino (2). A noi infatti, più che sulle fasi, sui protagonisti o sul significato di quell’evento, su cui anche recentemente sono apparsi alcuni articoli (3) e che al di là di ogni retorica riteniamo fondamentale per la riscoperta delle radici dell’identità toscana e nazionale, sembra stimolante soffermarsi ora sulle vicissitudini di quei prigionieri, anche perché essi, dopo una marcia forzata di 15-20 miglia giornaliere, vennero poi internati a Theresienstadt, una città-fortezza boema, dedicata all’Imperatrice Maria Teresa, che ospiterà prigionieri italiani anche durante la prima guerra mondiale, ma divenuta universalmente e tragicamente nota col nome cèco di Terezin soprattutto dopo l’ultima guerra mondiale.
Terezin fu infatti l’unico lager nazista in cui vennero concentrati solo bambini ebrei (15.000) nel  passaggio verso Auschwitz e la “soluzione finale” alla quale appena un centinaio sopravvisse: Theresienstadt-Terezin, oggi “luogo della memoria”, da sempre luogo di terrore?  Vedremo.
Ma torniamo ai prigionieri del 1848 per notare, fin da ora, due costanti di tutto quel viaggio: la comunanza fraterna fra i volontari provenienti da varie città toscane, cosa insolita per una regione da sempre rósa da dispute campanilistiche, ed i non facili rapporti fra gli studenti ed i soldati granducali, i “così detti  bianchini… che –  nota Tarugi – è bello tacere cosa fossero di scellerato”(4). Quest’ultimi, inviati obtorto collo da Leopoldo II in Lombardia, già prima della battaglia avevano mostrato insofferenza verso i “signorini” studenti ritenendosi trascinati dal loro idealismo nei pericoli di una guerra alla quale, evidentemente, avrebbero preferito sottrarsi. Tuttavia i “bianchini” (dal colore della loro divisa spesso confusa sul campo con quella degli austriaci) poi si batterono bene, ed anzi, quando “a caldo” alcuni studenti prigionieri furono minacciati, in quanto “irregolari”, di fucilazione, essi offrirono di ceder loro alcuni capi del proprio vestiario affinché potessero camuffarsi da soldati dei reggimenti di Linea.
Dal 3 al 5 giugno i prigionieri intraprendono la marcia da “Mantova a Verona…la più penosa di tutte le altre fino a Theresienstadt” (5). Nella città scaligera possono finalmente dissetarsi, sfamarsi e pensare alle famiglie lontane, ma i contatti postali con la Toscana sono interrotti e bisogna arrangiarsi: il pistoiese Pietro Fanfani, poi celebre vocabolarista, prova ad es. ad avvertire il collaboratore veronese della sua rivista “Ricordi filologici e letterari”,  P. Bartolomeo Sorio, affinché questi successivamente scriva a Pistoia che lui ed altri concittadini come Francesco Bianchini, Giuseppe Bracciolini, Icilio Capecchi , Francesco Vannetti, ecc., sono vivi, ma prigionieri (6).
Ripresa la marcia i prigionieri entrano nell’allora denominato “Tirolo italiano”, che in sostanza corrisponde all’attuale Trentino, giungendo il 7 ad Ala, poco sopra il Lago di Garda, anche questo poi “luogo significativo” perché qui dal 1866 fino alla prima guerra mondiale sarà stabilito il posto di confine, sulla strada del Brennero, fra Italia ed Impero Austroungarico, confine poi ristabilito da Hitler nel 1943-44 durante l’effimera Repubblica di Salò (7).  In questa zona i “nostri” hanno per un tratto di strada come guardiani un reparto di studenti viennesi militarizzati con i quali, ricordano, era possibile fraternizzare: “ …in ogni paese Italiano o Tedesco …gli Studenti erano i primi ad avvicinarsi a noi…uno Studente era riguardato come un vecchio amico”(8). Saranno via via poi presi in consegna da soldati delle varie nazionalità componenti quel gran mosaico che era l’Impero Asburgico: rigidi, ma corretti gli austriaci, con l’eccezione però dei tirolesi, insieme ai croati sempre particolarmente duri, spesso gentili invece gli ungheresi, quasi complici infine i triveneti che spesso, ma sottovoce, li saluteranno con un “Viva l’Italia”. A Trento infatti i “nostri” trovano eccezionale accoglienza: “Le…persone …gettavano pezzi di pane, danari …e…ci abbracciavano piangendo” (9).
La situazione cambierà ben presto nel “Tirolo tedesco”, che andava dalla zona di Bolzano (10) a quella di Innsbruck, dove invece i prigionieri registreranno “segni di odio da quella popolazione” tanto che riterranno “prudenziale” serrare i ranghi e “non dividersi” (11).
Significativo il passaggio del 14 per il Brennero “con…in cuore la speranza che un giorno la nostra patria avrebbe raggiunto quel suo confine naturale” (12). Dopo Innsbruck, spesso pernottando all’aperto e mangiando “poco e pessimo pane intriso nel latte inacidito” (13) i prigionieri passano per Salisburgo e giungono a Linz, città che ricorderanno con nostalgia: “Il suo bel Lungo-Danubio – scrive Tarugi - mi rammentava il Lungarno di Pisa” (14), mentre Ademollo nota: “…una delle più belle città dell’Austria…fornita di vapori fluviali per Vienna e l’Ungheria …[con] i loro equipaggi composti quasi totalmente da Livornesi” (15).
Ripreso il cammino i “nostri” entrano in Boemia ed il 5 luglio, giunti a Budweiss, vengono divisi: i “regolari” sono inviati verso le fortezze di Koenigsgratz e di Josephstadt, mentre i volontari, studenti e non, compresi una ventina di soldati napoletani, verso Theresienstadt.
E’ con gli studenti boemi che ora i “nostri” riescono a stringere forti legami di simpatia anche perché pochi giorni prima nella vicina Praga si era verificata una rivolta antiasburgica: “c’intendevamo…più di tutto con la lingua latina, nella quale…potevano dirsi maestri” (16) – ed essi –  “subito chiedevano all’Uffiziale di scorta…di portarci nelle loro case a pranzo” (17).
Giungono finalmente a Theresienstadt “che fece l’ingegnere Pellegrini di Milano, a’ suoi tempi…In fondo di questa fortezza esisteva un ampio seguito a ferro di cavallo di casematte di due piani e in una parte di queste i prigionieri furono collocati…dinanzi ad un alto impalancato di legno” (18).
Sui “nostri” gravano ora la “monotonia della vita di caserma” unita alla preoccupazione per non poter ricevere o spedire notizie ai familiari. “In seguito le lettere arrivarono, l’animo tornò più tranquillo ed allora cominciammo ad arrabattarci per passare meglio che si poteva il nostro tempo” (19). Si prova a dipingere avendo come maestro il pittore pistoiese Demostene Macciò, ma soprattutto si organizzano concerti d’ opera italiana “sotto la direzione di Baco Canovai, di Gherardi del Testa e di altri prigionieri…melodie…da noi tanto bene riprodotte…che le famiglie degli Uffiziali, rotte le consegne delle sentinelle…vollero entrare nel piazzale riservato per vederci e udirci da vicino. Lo stesso nostro burbero comandante dismise i suoi rigori e concesse che alcuni di noi tutti i giorni potessero …uscire dalla  fortezza  …e anche facoltà di condursi in qualche città della finitima Sassonia” (20).
I “nostri” possono così “gustare dei discreti manicaretti, fra’ quali la lepre cotta in più modi” (21), ma non solo: “a Leitmoritz (sic.)[esattamente: Leitmeritz in tedesco e Litoměřice in ceco N.d.A.]…sull’Elba – ricorda Ademollo –  città…fornita di una copiosissima libreria potemmo abbellirci di quanti libri Francesi e Tedeschi volevamo…unico e solo libro Italiano che ci trovavamo fu la raccolta delle Poesie del Giusti  [la cui fama]…si era spinta per un buon tratto nel settentrione”(22).
In sostanza la permanenza a Theresienstad sarà via via per i “nostri” talmente piacevole che Tarugi noterà: “Se non mi avessero fatto difetto i soldi quel periodo di prigionia sarebbe stato per me una vera villeggiatura” (23). Tutto ciò oltre ad un istintivo di nostalgia per i modi cavallereschi dei “bei tempi andati” non può che provocare oggi in noi una profonda angoscia ben sapendo cosa accadrà proprio in quel luogo quasi cent’anni dopo.

Finalmente il 24 agosto i toscani apprendono dell’Armistizio di Salasco ed ora, non più prigionieri, potranno ripercorrere con comodo (addirittura a Linz troveranno l’inviato del governo toscano Ubaldino Peruzzi che fornirà loro gli arretrati della paga!) la strada dell’andata per  rientrare a settembre inoltrato in patria.  


                                                                  
                                    Carlo O. Gori
Carlo Gori - Carlo O. Gori - Carlo Onofrio Gori
                              

                                 

Questo articolo è riproducibile, del tutto o in parte, avendo però cura di citare chiaramente l'autore e le fonti.











Sintesi e rielaborazione degli articoli di Carlo O. Gori:
Theresienstadt,  prigione d’eroi. L’internamento in Boemia dei volontari toscani del 1848 nel ricordo di alcuni patrioti pistoiesi, in “Microstoria”, n. 47 (mag.-giu. 2006);



Da Curtatone e Montanara a Terezin: il lungo viaggio dei prigionieri toscani del 1848, in "Camicia rossa", n. 2/3 (mag./set. 2010).



Per le note consultare i diversi articoli aventi lo stesso argomento sulle riviste suddette.
E' possibile la riproduzione parziale e/o integrale di questo articolo previo consenso dell'autore o comunque citando lo stesso. Carlo O. Gori





cog@interfree.it



 Da:"camiciarossa@virgilio.it" <camiciarossa@virgilio.it>   [Aggiungi alla rubrica]
 A:cog@interfree.it
 Data:15 Gen 2012 - 15:44
 Oggetto:rassegna storica del risorgimento

Caro Carlo
ti informo che la "Rassegna storica del Risorgimento" - fascicolo lug-sett.2010 ha segnalato, nello spoglio degli articoli di interesse risorgimentale, il tuoi:
-Da Curtatone e Montanara a Terezin
-Gli artefici della nuova Italia nelle targhe delle vie cittadine
entrambi pubblicati nella nostra rivista "Camicia Rossa".
Certo che gradirai questa autorevole segnalazione, ti saluto con cordiale amicizia

Sergio Goretti

"carlo gori"

martedì 12 aprile 2011

Carlo Onofrio Gori. Risorgimento. I Macchiaioli

Fra “la meglio gioventù” dell’Ottocento:  i Macchiaioli,  pittori rivoluzionari e patrioti democratici


Un famoso e bel ritratto di Garibaldi, dipinto da Silvestro Lega, è stata forse l’icona più ricorrente delle recenti celebrazioni del Bicentenario. Il romagnolo-toscano Lega, che fu tra gli ultimi ad aderire alla corrente dei Macchiaioli per divenirne alla fine protagonista assoluto, lo tratteggiò nel 1861 sull’onda di un suo incontro con l’Eroe avvenuto tre anni prima a Modigliana dove il Generale si era recato per incontrare don Giovanni Verità, il sacerdote che nel 1849 lo aveva messo in salvo quando, dopo il fallimento della resistenza della Repubblica Romana,  era braccato dagli eserciti nemici.
Questa immagine corrucciata del Generale (che farà pendant con l’altro suo famoso ritratto di Mazzini morente) nella quale Lega, mazziniano coerente e “garibaldino”, sembra alludere anche al suo rammarico nel vedere delusi, all'indomani dell'unità italiana, gli ideali democratici in cui credeva e per i quali si era battuto, ci da l’occasione per ricordare questo movimento di giovani pittori, impegnati a superare accademie e romanticismi per ritrarre la natura dal vero, sviluppatosi a Firenze dalla seconda metà dell'Ottocento in parallelo all'insorgere delle passioni politiche e delle aspirazioni di unità e indipendenza suscitate dai moti popolari del '48.
Nei macchiaioli la volontà di rifondare il linguaggio artistico sarà infatti sempre strettamente legata alla forte tensione morale e al coinvolgimento nell’azione politica, ed  uno degli elementi accomunanti di questo gruppo di ammiratori di Mazzini e di Garibaldi sarà costantemente la condivisione dei valori di patriottismo e di democrazia, una democrazia dai connotati anche molto radicali, con evidenti propensioni  verso il socialismo, come ad esempio avverrà per Telemaco Signorini e Diego Martelli. 
Com’è noto il termine “Macchiaioli” fu coniato in senso dispregiativo da un anonimo giornalista in un articolo comparso sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino del 3 novembre 1862, ma quei pittori  vollero  polemica­mente adottare il nuovo termine con una accezione positiva, come definizione e “segno” di un vero e proprio movimento operante nel periodo del trapasso dal gusto romantico a quello verista.  
II ritrovo culla e simbolo dei pittori fu il Caffè Michelangiolo, che non era nella zona del famoso omonimo Piazzale, come un distratto recensore di recenti mostre è stato indotto erroneamente a pensare, ma era giù in città, nella medicea via Larga (oggi via Cavour), già da allora una delle più belle strade di Firenze, a due passi dall’Accademia.
Il Caffè, che oggi non esiste più, si componeva di due locali , uno dei quali, come possiamo vedere in un famoso dipinto di Adriano Cecioni, decorato dagli artisti che lo frequentavano, e proprio in quella stanza già dal 1849-50, avvennero le prime  vivaci ed informali riunioni.
Gli artisti che costituirono quel nu­cleo “storico” e principale del movimento furono i fiorentini Cecioni, scrittore e scultore oltre che pittore, e Raffaele Sernesi; il livornese Serafino De Tivoli, il pisano Odoardo Borrani, il pesarese Vito D'Ancona; a loro si aggiunsero via via poco dopo il napoletano Giuseppe Abbati, il veronese Vincenzo Cabianca ed i fiorentini Telemaco Signorini e Diego Martelli, quest’ultimo ancora giovanissimo, che della corrente diverrà critico intelligente e mecenate sensibile.
Il periodo più vivo dei loro approfondimenti va dal 1854 al 1860, ma è dal 1856 che, con l’apertura al pubblico della collezione, ricca di capolavori della migliore pittura contemporanea france­se (compresi quelli della scuola di Barbizon precorritrice dell’impressionismo), conservata  nella Villa Pratolino del principe Anatoli Demidoff e con l’arrivo nel gruppo del napoletano Domenico Morelli,  del foggiano Francesco Saverio Altamura e del livornese Serafino De Tivoli, tutti reduci dalle esperienze artistiche parigine, le iniziali e confuse aspirazioni e sperimentazioni della corrente trovarono via via approdo in una maturazione più concreta che individuò chiaramente nell'accentuato contra­sto timbrico e chiaroscurale della “macchia” il principio fondante di una nuova maniera.
Dalla fine degli anni Cinquanta confluiscono nei macchiaioli altre importanti figure di artisti che contribuiranno a caratterizzare in modo indelebile la corrente: Giovanni Fattori, Raffaello Sernesi,  Giovanni Nino Costa,  Federico Zandomeneghi,  Silvestro Lega,  Giovanni Boldini, e di tanti altri poi considerati dalla critica “minori”.
Ed è  proprio in questi anni, con la guerra del 1859  e la fine del Granducato di Toscana e poi nel 1860 con l’Impresa dei Mille, che si apre un altro decennale e decisivo capitolo del movimento, riguardante non solo la ricerca pittorica, ma anche una partecipazione attiva di molti macchiaioli  alla battaglie del Risorgimento.
Borrani, Cabianca, Signorini, Martelli partirono volontari nel 1859, gli ultimi due con Garibaldi, come fu nel 1860 col Generale, Abbati, che nella Campagna meridionale perderà l'occhio destro, mentre Martelli tornerà con l’Eroe in quel fatale 1866, lo stesso in cui Sernesi, ferito e catturato in battaglia morirà a Bolzano prigioniero degli Austriaci a soli ventisette anni. Anche nel 1867 il romano Nino Costa, garibaldino convinto, che tanta influenza esercitò  sulla pittura dei fiorentini ed in particolare su Fattori, sarà col Generale a Mentana, come lo era stato  nel 1848 durante la Repubblica Romana e sarà, tra l'altro, uno dei primi ad entrare in Roma liberata dal potere pontificio nel '70.
Ma anche chi non partì in questi frangenti, darà poi il suo contributo sul piano artistico, ed è questo ad esempio il caso di Giovanni Fattori, pittore livornese (insieme con Signorini e Cecioni, teorico del gruppo) che anche se non si misurò sui campi di battaglia, fu in molti modi, fin dal ’48, sempre dalla parte dei patrioti, traendo ispirazione per tutto il resto del suo percorso artistico dai temi e soggetti di ambiente militare, destinati a divenire l’aspetto più noto, ma forse – fatte salve due o tre opere – non migliore, della sua produzione. Risultò, tra l’altro,  vincitore del famoso concorso, promosso alla fine del 1859 da Bettino Ricasoli,  riservato ad opere artistiche che si collegassero al soggetto militare risorgimentale, filone nel quale poi si confronteranno un po’ tutti i macchiaioli, da Lega a Signorini. Dell’opera di Fattori vale la pena qui ricordare, tra i tanti suoi famosi dipinti “militari”, il noto, semplicissimo e straordinario In vedetta con i tre soldati a cavallo che vengono quasi proiettati contro il muro calcinato e l’orizzonte piatto per il calore, e l’aspra immagine deLo staffato, opera tarda del 1880, che possiamo decifrare anche come simbolo dei sentimenti di dramma e di disagio suscitati in lui dal tradimento degli ideali del Risorgimento, nella quale un cavalleggero viene trascinato a morte dal cavallo che lo ha disarcionato lasciando sul terreno ampie strisce del suo sangue.
Occorre inoltre ricordare che anche il “nostro” Lega (che nel 1848 non aveva esitato ad arruolarsi volontario nel se­condo Battaglione Fiorentino insieme al fratello Carlo e ad altri artisti fiorentini, fra i quali Serafino De Tivoli, partecipando all'assedio di Mantova e alla battaglia di Curtatone), fornirà un’immagine indelebile della guerra del ’59 col suo famoso quadro in cui raffigura alcuni austriaci condotti prigionieri da nostri bersaglieri.
Del resto, osservando i quadri realizzati soprattutto intorno al 1859, vediamo che protagonista di vari dipinti macchiaioli è il tricolore italiano, e non sarà difficile individuare rapidi accostamenti di bianco, rosso e verde, talora assai minuti, segnali a volte furtivi e allusivi di un fervore patriottico autentico, presenti altre volte in maniera esplicita, ad esempio,  ne La prima bandiera italiana in Firenze nel 1859 di Altamura e ne Il 26 aprile 1859 di Borrani, che ricorda il giorno antecedente la partenza da Firenze del granduca Leopoldo II, costretto a furor di popolo a lasciare la Toscana.
Durante lo scorrere degli anni Sessanta quella passione patriottica che aveva animato gli artisti, e che indurrà alcuni di loro nel 1866 a lasciare i pennelli per prendere nuovamente il fucile, è progressivamente delusa dall'assetto politico che sta prendendo la nuova Italia unita, anche perché anche dopo l’annessione del Veneto,  rimangono aperte le ferite del Trentino e di Roma non ancora liberati.
E’ un periodo in cui tutto l’ entusiasmo e la passione dei pittori si  rivolgono ad un’attività febbrile che vede lo sviluppo e la precisazione della tecnica di macchia e che si esprime in sedi decentrate rispetto a Firenze e cioè nelle espe­rienze parallele, ma a volte anche dialetticamente dif­ferenti, avviate ambedue dal 1861 e concentrate attorno ai due cenacoli artistici, impropriamente poi definiti “scuole”, del  litorale di Castiglioncello, e della campagna fiorentina di Piagentina. 
A Castiglioncello Diego Martelli aveva ereditato una tenuta nella quale ospiterà per lunghi periodi i suoi amici pittori, che scoprono mare, radure e la luce stupenda delle albe e dei tramonti sulla costa, una natura oggi ahimé urbanizzata, ma allora splendida ed incontaminata, che si tra­dusse nelle mirabili Vedute e Marine di Abbati,  Sernesi e Borrani, ma soprattutto nelle solari te­le di Fattori, affermatosi a partire dal '67 come la figura dominante del gruppo. L’anima vera di Piagentina, nella campagna appena fuori Porta alla Croce, è invece Silvestro Lega, ospite dell'amico edito­re Batelli in un casolare vicino al punto (oggi coperto dalle strade e inglobato dalla città) dove il torrente Africo si butta(va) nelle verdi acque dell'Arno.
In questi due luoghi i pittori, dipingono en plain air e ragionano di ombre, di luce, di colore, ma anche di relazioni con la vita politica, sociale, intima, da cui per loro l'arte non può esser disgiunta, maturando nel contempo la convinzione che nell’Italia, ormai quasi del tutto unita sotto il segno della monarchia sabauda, è ormai  soffocata quella rivoluzione politica democratica ed egualitaria, in cui loro avevano sperato e per la quale si erano battuti insieme a tanti altri artisti e intellettuali.
Ed è in reazione al "tradimento" degli ideali mazziniani e dell'azione di Garibaldi, che i pittori trovano via via sbocco emotivo ed etico, sia nella calma ed evocativa ricerca illuministica di Castiglioncello, che evidenzia la bellezza dei luoghi in riva al mare e ispira la nostalgia dell'uomo moderno per la quiete del tempo passato, sia nella rappresentazione della vita quotidiana fra i casolari degli orti di Piacentina, intesa da Lega nella “purezza della forma dei maestri del Quattrocento” e con le spalle significativamente ben volte alla nuova Capitale del Regno e a quelle vecchie mura fiorentine che nel 1866 verranno distrutte.
Nel 1867, Telemaco Signorini sul “Gazzettino delle Arti del Disegno”, giornale ideato, edito e diretto dallo stesso pittore, tracciò in venticinque articoli un panorama dettagliato del movimento macchiaiolo, connotandolo come centro innovativo e fucina di soluzioni nuove, riconoscendo nella pittura naturalistica la forma d’arte più consona e rappresentativa del suo tempo nella fedeltà ad un paesaggio morale, prima ancora che naturale.  
La chiusura del “Gazzettino” (1868) coincise con la fine del periodo di maggior coesione del gruppo, che si andò progressivamente disperdendo dalla fine degli anni Sessanta per varie vicende, fra cui la morte di Abbati, e come abbiamo visto, di Sernesi, mentre Martelli e altri affrontavano il rapporto e il confronto con la contemporanea pittura impressionistica francese.
Finiva così la straordinaria esperienza di questa corrente artistica , e con essa una felice stagione creativa e ineguagliata nella pittura di tutto l’Ottocento italiano per il numero e la qualità dei pittori che vi presero parte.
Il movimento macchiaiolo fu deriso e non amato dai benpensanti del tempo e, per moltissimi anni, pressoché ignorato dalla cultura ufficiale italiana, ma, come dimostrano le numerose importanti mostre in questi ultimi anni a loro dedicate (e soprattutto e significativamente nel 2007 anno del Bicentenario di Garibaldi), il tempo è stato galantuomo con questi appassionati maestri, fuori dagli schemi virtuosi delle accademie e del purismo artistico, e capaci, ancora oggi, di parlare al cuore di quella gente semplice e dignitosa che loro raffigurarono con tanto amore e partecipazione e con una suggestione che mantiene  intatta tutto il suo fascino.
Un riconoscimento postumo e doveroso  per chi, come loro, si dimostrò autentico artista, artigianalmente votato ad un mestiere sentito con dedizione assoluta, nel raccordo fra arte e società e nel solco della trascrizione schiva, non “gridata”, ma fedele ed autentica in quanto sinceramente democratica e progressista, dell'etica risorgimentale.
E’ questa l’Italia seria, intraprendente, intelligente, tollerante, civile e giusta che tanti  connazionali, a partire dal Generale, avrebbero voluto, e che ci è storicamente troppo sovente mancata, e ci manca.
                                                                             
  
                          Carlo O. Gori
                                                                                                                            
                                                                                                       



"carlo onofrio gori" e "camicia rossa"


Rielaborazione dell’articolo di Carlo O. Gori, Fra “la meglio gioventù” dell’Ottocento:  i Macchiaioli,  pittori rivoluzionari e patrioti democratici, in "Camicia rossa",  n. 3/4 (lug.-dic. 2007)



Pubblicato il 20 Dic. 2010 anche sul blog:





Questo articolo è riproducibile parzialmente o totalmente previo consenso o citazione esplicita dell'Autore.















"carlo gori"