Toscana: luglio 1948
Sessant’anni fa alle 11,30 del 14 luglio 1948, a
Roma, poco fuori Montecitorio, uno studente siciliano di destra, Antonio
Pallante, sparava al segretario del partito comunista Palmiro Togliatti,
ferendolo gravemente.
Il giornale radio delle 13 diffonde la notizia e
subito l’Italia viene scossa dal più grande sciopero generale politico della
sua storia, scoppiato ovunque in modo spontaneo e caratterizzato da gravissimi
disordini.
Nel pomeriggio la Direzione del PCI chiederà in un
comunicato le dimissioni del governo “della discordia, della fame e della
guerra civile”, mentre solo alle 24 la maggioranza socialcomunista della CGIL
prenderà atto della situazione proclamando ufficialmente lo sciopero.
Che ruolo svolse la “rossa” Toscana in quelle
“calde” giornate di metà luglio 1948? Certamente di primo piano se Abbadia San
Salvatore sul Monte Amiata è generalmente considerato il
luogo in cui avvenne il più clamoroso episodio di rivolta nel Paese e
se, viceversa, ad un toscano, il “bianco” Gino Bartali, molti attribuiscono il
merito di aver decisamente contribuito a far sbollire la tensione attirando
l’attenzione degli sportivi di qualsiasi colore politico sulle sue insperate
vittoriose performances al Tour de France. Per i più giovani è giusto ricordare
che allora circolavano poche auto e moltissime biciclette ed anche per questo
il ciclismo contendeva al calcio il primato di sport più popolare, mentre il
Tour, che allora si correva per squadre nazionali era, come oggi, la corsa a tappe più
prestigiosa al mondo.
Ma al di là di queste due
note e spesso enfatizzate vicende, cosa accadde? Per comprendere meglio anche
quel che avvenne in Toscana occorre premettere che l’attentato fu indubbiamente
il prodotto delle tensioni politiche che avevano segnato una campagna elettorale
di eccezionale asprezza, condotta dalla DC e dalla Chiesa nel segno di una
“crociata” anticomunista e conclusasi il 18 aprile con la sconfitta del Fronte
Popolare. Sentimenti di esasperazione e frustrazione
tuttavia erano già presenti nella sinistra a causa della difficile situazione
economica e per altri avvenimenti politici: “Resistenza tradita”, rottura del
fronte antifascista ed espulsione dei social-comunisti dal governo, ecc. In
questo quadro poco rassicurante il militante comunista , ricordando la strage
di Portella delle Ginestre del 1° maggio 1947, pensa subito che l’attentato
al suo indiscusso e prestigioso leader, molto stimato da Stalin, sia preludio
ad una sorta di golpe governativo, ispirato dagli USA e dai circoli
clerico-reazionari, mirante a mettere fuorilegge il PCI. Ecco che allora in
quel luglio, nei centri di più forte tradizione
resistenziale, al Nord come in Toscana, senza aspettare ordini da Roma,
la gestione della crisi viene assunta da una sorta di “partito parallelo” guidato
dagli ex-partigiani che sostanzialmente non avevano disarmato.
Un’organizzazione, la cui esistenza fu poi ammessa da vari dirigenti del PCI,
preposta a difendere il partito e le libertà democratiche, ma che per un
incontrollabile “eccesso di risposta”, avrebbe anche potuto assumere un ruolo
rivoluzionario. Del resto si è poi saputo che anche nel fronte opposto
esistevano gruppi clandestini addestrati per entrare in azione in caso di una
rivoluzione comunista o di una invasione sovietica.
In quei giorni su tutte le strade toscane sorgono posti di
blocco presidiati dai dimostranti e si può circolare solo col lasciapassare
delle organizzazioni contadine ed operaie come ad es. succede a Colle Val
d’Elsa all’ordinario militare mons. Ferrero di Cavallerleone: “Tutti i
passeggeri sono stati obbligati a scendere e condotti alla locale Camera del
Lavoro. Qui l’ordinario militare è stato riconosciuto da un capitano dei carabinieri e subito
rilasciato…[poi] è stato fermato un’altra volta a Volterra ma è stato fatto ripartire
subito.” Si evince inoltre, da questa cronaca de “La Nazione” del 17.7, che
forze dell’ordine, laddove non hanno uomini e mezzi per contrastare i
dimostranti… si adeguano. Si verificano anche casi di fraternizzazione come
accade a Siena dove tre autoblindo della polizia cercano di affrontare i circa
400 dimostranti che assediano il Monte dei Paschi: ad un tratto esce dalla
torretta un agente che si qualifica come ex-partigiano lombardo e chiede come
comportarsi ai dirigenti comunisti presenti. I blindati in quel caso verranno
ritirati, ma pochi giorni dopo quel poliziotto sarà prima picchiato dai
colleghi, poi sottoposto a
procedimento disciplinare e congedato. In altri frangenti e con varie modalità
si cerca di neutralizzare le forze dell’ordine, scriverà infatti “L’Unità” del
20.7: “a Firenze le forze di polizia sono rimaste consegnate nelle caserme”,
mentre a Prato “la polizia [che] aveva proceduto all’arresto di due operai …
poi è stata costretta a rilasciarli dietro la pressione …delle masse popolari
sulla caserma [e] non è più intervenuta”. Anche ad Arezzo i manifestanti impongono la
liberazione dal carcere di alcuni attivisti arrestati nei mesi precedenti
durante manifestazioni, scioperi e occupazioni di fabbriche e lo stesso accade
nella “bianca”
Lucca dove, nota “L’Unità” del 21.7 “Tanto il Prefetto, come il Questore …
aderivano al rilascio dei lavoratori in arresto arbitrario”. Laddove non è
possibile fraternizzare o neutralizzare si hanno scontri aperti come avviene,
in frangenti diversi da quelli ricordati, nella stessa Siena, oppure a Certaldo, dove i
carabinieri respingono un assalto alla loro caserma, mentre a Livorno gruppi di manifestanti
sparano alle camionette della Celere nei pressi del monumento dei Quattro Mori,
dove muore in circostanze mai chiarite l'operaio disoccupato Corrado Neri, e
lungo la ferrovia per Vada.
Particolarmente gravi gli incidenti nella città
labronica: in
piazza della Repubblica una colonna preceduta da due carabinieri in
motocicletta e seguita da un’autoblindo e dai camion della Celere viene
bloccata dai dimostranti che saltano addosso ai carabinieri e danno fuoco alla
motocicletta; poco prima in via De Larderel era stato accoltellato ed ucciso il poliziotto
Giorgio Lanzi: per ironia della sorte si era arruolato nel 1945 dopo avere
combattuto come partigiano durante la Resistenza ed era uno dei pochi agenti
iscritti al PCI non ancora “epurati” da Scelba.
Nelle campagne toscane le leghe di mezzadri e
braccianti in
lotta per la stipula di nuovi patti agrari, approfittano della situazione per
occupare le aziende e trattare “da pari a pari” col padronato. Per tutti un
caso emblematico, quello accaduto nella zona di Montepulciano all'agrario Giuseppe
Mucciarelli la cui villa viene invasa da una folta delegazione che chiede la revisione dell'accordo sulla divisione dei
cereali: il Mucciarelli cerca inutilmente di imporsi,
poi telefona al maresciallo dei carabinieri invocando soccorso, ma quest’ultimo
gli risponde che, con quello che sta succedendo in giro, non ci pensa neppure
a mandare i suoi uomini per quella che ora gli appare come una normale
trattativa sindacale, per cui, alla fine, il Mucciarelli si rassegna a firmare
l'accordo.
Se questo accade nelle aziende agricole,
nei centri urbani grandi e piccoli le sedi confindustriali o “clerico-fasciste”
sono sotto assedio un po’ ovunque.
Ad esempio “La Nazione” del 17 luglio
riporta che a Pistoia nella “sede della DC, in via de’ Rossi. I locali venivano
messi a soqquadro e le carte incendiate sulla via” e mentre a Piombino “Le sedi della Dc e dell'
Azione cattolica sono distrutte”, a Pontassieve viene devastata la sezione delle ACLI.
Se ad Arezzo i dimostranti
riescono a distruggere solo i giornali murali posti “dinanzi alla sede della
DC”, a Firenze un
gruppo di manifestanti irrompe nei locali dell' Associazione industriali,
mettendoli a soqquadro e distruggendo “arredi, macchine e attrezzature”, mentre
un altro gruppo assalta in via de' Servi la sede del MSI: “Gli uffici …vengono
devastati, molto materiale viene portato via, a cominciare dagli elenchi degli
iscritti, poi i locali vengono dati alle fiamme”.
Del resto un po’ in tutta la
regione i fascisti
o presunti tali e i loro familiari sono praticamente costretti agli arresti
domiciliari; a Pisa esce invece di casa, e suo malgrado, uno studente universitario
ventenne, Vittorio Ferri, iscritto al MSI che viene ucciso dai dimostranti.
Alcune fonti assicurano che, desiderando emulare il gesto di Pallante, si
impadronisse di una carrozza di piazza lasciata incustodita e sparasse sulla
folla che in
p.za Cavalieri stava assistendo al comizio del sindacato, mentre altre fonti
asseriscono salisse sulla carozza per sfuggire ad alcuni manifestanti che in
una strada adiacente l’avevano riconosciuto e inseguito.
Dunque mai come in quelle giornate in Toscana, come
nel resto del Paese, il “segno” che avrebbe fatalmente aperto scenari greci fu
più volte sul punto di esser passato (forze contrapposte spingevano per
situazioni di “non ritorno”), ma alla fine il buonsenso prevalse: informali
contatti fra governo e sinistra chiarirono che non c’era nessuna intenzione di
effettuare un golpe anticomunista, mentre da parte della direzione nazionale
del PCI, anche su indicazione di Togliatti, le cui condizioni andavano
migliorando, si assicurò che si sarebbe fatto tutto il possibile per riportare
la situazione nella legalità. Del resto l’ambasciata sovietica era stata subito
chiara con i dirigenti comunisti: in caso di rivolta nessun aiuto sarebbe
potuto venire da Stalin. Gli accordi di Yalta sulla spartizione dell’Europa
avrebbero infatti “funzionato”, pena lo scatenarsi di un terzo conflitto
mondiale, per tutta la durata del confronto Usa-Urss.
Il 16 luglio, alle ore 12, lo sciopero generale
termina: “il via”, tanto atteso da gran parte della base del PCI, non c’è
stato, né ragionevolmente ci poteva essere, ed anche nella nostra regione il
Centro del partito, con l’invio da Roma di noti dirigenti toscani come Ilio
Barontini, Alfredo Scappini, Vittorio Bardini, ecc., può, seppur faticosamente,
far “rientrare” la situazione.
Il PCI esce da questa dura prova politicamente
indebolito: mentre De Gasperi e Scelba rimangono, rafforzati, al loro posto,
all’interno della CGIL i democristiani avviano la scissione e nel PSI le
correnti autonomiste riprendono fiato.
Resta aperta la questione della rivolta di Abbadia
S. Salvatore dove, com’è noto, i dimostranti avevano assediato la strategica
centrale telefonica e dove erano stati uccisi due poliziotti. Situazione che
registrerà un ulteriore tragico strascico il 18 luglio in via di Città a Siena
quando, in occasione dei funerali degli agenti uccisi, morirà il capolega della
Federterra Severino Meiattini. Ma nel caso dell’Amiata, come ha notato Anna
Rita Gori nel n. 54 di “Microstoria”, “l’arrivo massiccio della polizia e la
conseguente fuga in montagna di molti dimostranti segnarono il punto di non
ritorno della vicenda” che, al di là dell’oggettiva gravità dei fatti, fu però
strumentalizzata da Scelba per accreditare lo schema: “Pci = pericolo per la
democrazia” e scatenare una reazione che servisse da monito per il futuro. Tra
le varie sommosse esplose in quel luglio in Italia il ministro degli Interni
scelse proprio quella amiatina perché passare al setaccio ed imporre il
silenzio ad un’intera popolazione era operazione più semplice da effettuare in
un paese isolato a 800 metri d'altezza, che invece in una grande città, come ad
es. Genova dove, come ad Abbadia, era intervenuto anche l’esercito, ma forse si
era passato ben di più “il segno”.
Forse non si saprà mai con certezza se
l'attentato fu, come appare, solo il gesto di un esaltato o se invece può esser
annoverato fra i primi episodi di quella che poi verrà definita “strategia
della tensione”,
mirante, in questo caso, a provocare una violenta reazione della base della
sinistra per individuarne le avanguardie, saggiarne la pericolosità, ed
aggiornare le strategie governative. Quel che è certo è che alla fine di quelle
giornate si registreranno 16 morti e alcune centinaia di feriti; entro la metà
di agosto verranno eseguiti 7mila tra arresti e denunce che si protrarranno poi
anche per tutta la prima metà degli anni ‘50. Il bilancio di un biennio di
repressione verrà elencato da Pietro Secchia in Senato nell'ottobre del 1951:
62 lavoratori uccisi, più di 3.000 feriti, oltre 90.000 arrestati e circa
20.000 condanne, per 7.598 anni di carcere complessivi.
Il “popolo della sinistra” dovrà attendere il luglio
1960 per tornare da protagonista sulle piazze italiane con le grandi
manifestazioni antifasciste che provocarono la caduta del governo del dc
Tambroni appoggiato dal MSI.
Tratto dell'articolo:
Carlo Onofrio Gori, 1948, “Gl'hanno sparato a Togliatti”. Le reazioni in Toscana all'attentato al leader comunista tra spinte rivoluzionarie e ritorno all'ordine, in “Microstoria” , n. 58 (ott.-dic. 2008)
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